Il nuovo volgare e la pallavolo

uno

Gira sui social una bellissima foto di Egonu che fa un salto incredibile e schiaccia, ed è un simbolo sicuramente da contrapporre alle polemichette di una certa post-destra nazionalista e poveraccia che mette tristezza solo a pensare a che vita orribile deve fare uno per tirare fuori certe cose.

Però mentre guardavo la foto dentro di me c’era un campanellino che diceva, Venerandi, ok il simbolo di essere al di sopra delle cose, ma così proprio no, questa cosa puzza di photoshop lontano un miglio e quindi mi sono messo lì, venti minuti abbondanti della mia vita perché questa volta era piuttosto difficile beccare il fotogramma e – sì – è un fake.

Qua vedete la foto vera in cui la Egonu schiaccia, ma ad altezze più umane e – sì – ho controllato, questo è l’originale, nell’altro si vedono alcune persone clonate per riempire gli spazi dello spostamento.

due

Perché mi metto a cercare queste cose? Non lo so. Perché ho rispetto per le fonti dirette e mi scoccia vivere in un epoca che deve fare leva sull’emozione invece che sulla ragione, e in cui le informazioni vengono anonimamente distorte e manomesse senza che ci sia traccia e indicazione di questo lavoro.

Anche perché una fonte tossica poi può venire scoperta, agitata contro contro chi la sbandierava andando a intossicare anche i messaggi sacrosanti che stavano alla base del post.
Non ce ne è bisogno, non ce ne dovrebbe proprio essere bisogno.

Mi sono poi messo a raccontare questa cosa a mio figlio, gli dicevo che i social affrettano un procedimento mentale di semplificazione che fa parte dell’uomo. Raccontavo della foto della ragazza che fa pallavolo e che viene spostata in alto di un metro, e di come questa cosa eccezionale, ma falsa, diventa virale, perché soddisfa il nostro disegno emozionale.

E – aggiungevo – questa cosa è tossica, è come mangiare i Dixi, non ti fermi più. Lentamente ma progressivamente si crea una nuova estetica, che è l’estetica dell’esemplarità: ho bisogno di icone chiaramente positive o chiaramente negative e mi nutro della loro eccezionalità.

La mia retorica nel difendere le mie posizioni segue lo stesso andamento. Guarda la questione dei vaccini: ho persone che conosco personalmente nei miei profili Facebook che stanno scrivendo cose tremende. Alzano l’un l’altro la stecca dell’altezza della discussione (o meglio: l’abbassano) fino ad arrivare alla stessa estetica dell’esagerazione: odio verso la categoria avversa, linguaggio stereotipato, messaggi univoci e violenti.

La verità è che stanno photoshoppando la loro retorica, come hanno photoshoppato le immagini. L’abitudine ad avere cose sacrosante in home, ad aggiustare la rappresentazione di se stessi perché sia anche quella photoshoppata, aggiunge tasselli a questa nuova estetica della bolla e dell’esemplarità farlocca.

Perché questo è pericoloso? Perché la realtà non è photoshoppata, in partenza almeno. Non ha quasi mai la comodità dei chiaroscuri tossici che vengono immessi in rete. La realtà – spesso – è poco emozionante, è confusa, la realtà, anche quella buona, commette errori, è contraddittoria.

La realtà e la comunicazione hanno bisogno di uno sforzo sociale che – paradosso – non ha la forza e lo spazio per attecchire sui social.

Nel mille e duecento “nasce” il volgare in Italia, nel senso che inizia ad affermarsi in ambito letterario. In realtà il volgare è una lingua artefatta, che si affianca al latino e che non viene parlato né usato davvero dal volgo, che resta per la gran parte legato a dialetti e forme verbali (solo orali) di cui ancora oggi conosciamo pochissimo. E la cosa andrà avanti a lungo, per alcuni aspetti fino al novecento e oltre.

Ecco, l’impressione è che si stia creando in questi anni un nuovo volgare, in rete. Un nuovo linguaggio. E non mi riferisco agli idioletti, le schwa, o gli acronimi del “vocabolario urbano” della rete. Un nuovo modo di gestire il testo, i ragionamenti, per gradi minimi, sapendo – questo è un punto importante – che quello che viene scritto finisce nel flusso di un fiume in piena.

Io ora non sto scrivendo per sempre: questa parola che stai leggendo, non la sto scrivendo in un text-editor per conservarla. Sto scrivendo dentro a un box di Facebook per alimentare un flusso testuale, uso un certo tipo di linguaggio e di ragionamenti di cui ho stabilito, inconsciamente, la durata nel tempo e il numero di lettori possibile.

I concetti e la scrittura che hai sotto gli occhi non supereranno i cinque/sei giorni di vita e resteranno circoscritti a un centinaio di persone. E la narrazione, il volgare che uso è fatto per buttare roba in questo flusso e questa estetica.

Questo nuovo volgare, questa frammentazione di idee e di concetti, questo copincollare concetti appena visti e reinmetterli in circolo, condividerli e photoshopparli, questa microdistruzione atomica di ragionamenti che non possono arrivare ad un livello minimo di complessità, è affascinante. Socialmente, linguisticamente.

È affascinante ma rischiosa. Rischia di essere totalizzante e divisiva. Il suo fascino, quello di far sentire tutti parte di questo romanzo collettivo, ha radici cortissime, che non tengono. Vive della dimenticanza.

La scrittura, da sistema di memorizzazione, diventa nel nuovo volgare una scrittura di smemorizzazione. Scrivo perché – tra poco – avrò dimenticato anche quello di cui stavo parlando, perché nuovi contenuti tossici saranno immessi in rete e io dovrò fare il mio lavoro di generazione di testo.

[scritto su Facebook il 24 e 25 luglio 2021]

25. luglio 2021 by fabrizio venerandi
Categories: digitale & analogico | Leave a comment

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