La cosa che mi colpisce cercando di usare Android con il Tab X C, per sostituire del tutto l’uso del vecchio Macbook, è la sensazione di incertezza e di mancanza di senso di controllo della macchina. L’idea che i file siano da qualche parte sull’ssd e che i programmi si rapportino ai file in maniera erratica, tematica, dandoti una visione del luogo “reale” di dove si trovino aleatoria e incerta, è disturbante. Ogni applicazione fa finta di essere in un computer diverso da tutte le altre, mostrandoti un angolo inedito della tua memoria di massa, quasi un puzzle che ogni App ti prega di non risolvere chiedendoti di pensare per “recenti”, per “galleria” e altre amenità. Probabilmente per qualcuno questo modo di pensare le informazioni è comodo.
Io lo trovo urticante, mi manca un finder che dia uno spazio e un luogo ai file generati. Ci sono – è vero – delle applicazioni che permettono di navigare tra le directory e i file del proprio hard disk, dio le benedica, ma in genere l’interfaccia che presentano sembra essere costruita sulle linee guida che stavano dietro a Windows 3.1. Un salto indietro di una trentina d’anni. Stessa cosa, per me, la gestione “monoteista” delle applicazioni. Se ne può usare una per volta. Avere una schermata con boh, quattro finestre di quattro applicazioni diverse, copincollare una immagine da una applicazione ad un’altra, quasi contro natura.
Le applicazioni. Non dico che non ci siano buone applicazioni, ma una parte importante delle applicazioni più utilizzate sembrano lobotomizzate. Google Docs, che già fa senso nella sua versione online, in quella Android sembra che qualcuno che lo odia si sia accanito contro di lui. Quell’indispensabile coltellino svizzero di OpenOffice/Libreoffice ha solo porting parziali dove tutto l’enorme golem dell’integrato è coperto da un lenzuolino che ne copre solo un pezzetto: qua mancano delle funzioni, là manca il database, lì è sparito il basic, qua sono rimasti solo i bug. Word, sono arrivato a scaricare word per darvi l’idea dello sconforto, non partiva e non capivo perché. Poi ho scoperto che se hai uno schermo più grosso di 10 pollici, Word non parte se non paghi l’abbonamento. Ho riletto la frase un po’ di volte prima di disinstallare tutto. Word si installa, guarda quanto è grosso il tuo schermo, se è più grosso di 10 pollici e tu non sei abbonato dà errore e non parte. Insomma, le applicazioni ci sono, ma sembra che qualcuno le stia bullizzando.
E ci sono poi applicazioni minori, indie, validissime eh. Non dico di no. Solo che sono annegate in uno store e mescolate ad una malta di cose che fingono di essere applicazioni, ma sono in realtà l’enshittification dell’idea di applicazione: apri e partono reclame in ogni punto dello schermo, inizi ad usarle e si avviano videoreclame a tutto schermo di Temu, pulsanti che sono nascosti in mezzo all’icona del boldato e dell’italico che se li tocchi per sbaglio ti parte un abbonamento a vita a Tv Sorrisi e Canzoni o a un gioco online in cui devi collezionare stelline sorridenti ingrassando tacchini in un allevamento, ma cosa ne so, l’orrore, l’orrore, l’orrore.
Insomma: sto costruendo un mondo vivibile tassello dopo tassello, tengo un Death Note in cui scrivo le applicazioni che mi hanno fatto perdere la serenità, conservo come oro le apk di app i cui gli sviluppatori – ho scoperto – possono sparire da un momento all’altro, banditi dallo store e poi dal mondo tutto della rete e di tanto in tanto apro un app terminale e scrivo un po’ di istruzioni unix e mi rilasso vedendo scorrere un mondo che somiglia all’informatica buona e sana.
Perché per me computer continua a essere quella cosa che se ti viene in mente di prendere la prima parola di un romanzo di Pavese, poi la prima di un altro romanzo di Pavese, poi la prima di un terzo romanzo, e poi la seconda e poi la terza e così via fino a raccogliere le prime diecimila parole di tre romanzi di Pavese, per poi averle in uscita in successione come una tessitura lessicale, un pasticcio dei sintagmi, ecco, puoi metterti lì e scrivere un codice che te lo faccia.
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