Diario di Diaries of a Spaceport Janitor

Screenshot dal Diaries of a Spaceport Janitor

Caro Diario

mi è presa la scimmia di Diaries of a Spaceport Janitor, in pratica sono una specie di spazzina su una base spaziale, e – andando sottoterra – sono stato oggetto di una maleficio e sono seguito perennemente da un teschio, tranne quando salgo su una ziggurat e vivo in questo micromondo pieno di alieni che commerciano, girano, sporcano e io pulisco.

La grafica è stranissima, ha due modalità “bad” e “worse”. È scalettata e colorata, un mondo in tre dimensioni dove i personaggi però sono bidimensionali. La grafica crea una spazialità confusa, tanto che dopo ore e ore di gioco continuo a perdermi nella città. Mi sa che mi dovrò disegnare una mappa.

Lo scopo del gioco – per ora – è trovare le tre parti di un tablet che dovrebbero aiutarmi a rimuovere la maledizione.

Ma quello che mi affascina è il mondo multietnico, non è occidentale, sembra una specie di mondo indiano in salsa multigalattica, ci sono nove dee che tutti adorano e – a seconda delle cose che fai ottieni dalle divinità un certo grado di fortuna.

Le cose che trovi per terra puoi incenerirle e allora lo stato ti paga, oppure puoi provare a venderle ai negozianti, che però cercano di fregarti. Ogni tanto devi mangiare, e il cibo lì oltre a essere molto caro è anche poco salutare e – di tanto in tanto – devi cambiare genere sessuale, ci sono delle machine che permettono di farlo.
Il gioco è del 2016 è indie da morire e se non dovessi lavorare, mangiare, andare in bagno, cose così, sarei sempre attaccato.

Caro Diario

cercando in rete ho capito perché la città di Diaries of a Spaceport Janitor mi sembrava avere una strada “geometria non euclidea”: alcune vie della città “collassano” su altre, moltiplicando la città e rendendola infinita, ma sempre la stessa. Un po’ come i buchi di uscita e entrata a destra e sinistra del Pac-Man, ma applicati a una intera città senza soluzione di continuità, facendo in modo che l’incollatura spaziale sia perfetta.

Sono riuscito ad avere due dei tre pezzi del tablet che mi dovrebbero liberare dal maleficio, uno dei due dopo un emozionante incontro notturno sulla cima della ziggurat con una seguace delle divinità locali. Il terzo pezzo è nel sottosuolo, dove si può accedere solo drogati, dopo aver mangiato l’occhio di non so bene quale animale o divinità.

La scoperta della mappa “non euclidea” è affascinante e rende ancora più malinconico il belvedere, una piccola zona del gioco dove si vede, dall’alto, una vallata coperta delle piccole abitazioni locali tra le quali non potrò mai camminare.

Una delle cose che trovo notevole di questo gioco è la cura che hanno avuto nel rendere il passaggio dal giorno alla notte o i momenti di pioggia: l’uso dei colori, il cambio della palette di questa grafica confusa tra vettoriale e bitmap rende davvero immersivo il cambiare del tempo. Molti giochi assai più “realistici” non riescono ugualmente a rendere i radicali cambiamenti cromatici del mondo reale.

Mi rendo conto che mi sto avvicinando alla fine della parte più narrativa e già ci sto male. Ieri sera mi immaginavo di poter davvero, almeno una volta, camminare per le strade del gioco, come se potesse esistere una versione reale di quel mondo immaginario da visitare una volta che si spengono le luci della rappresentazione videoludica.

Caro Diario

ho terminato Diaries of a Spaceport Janitor e per un po’ ci sono stato male.

Anche perché il finale non me lo aspettavo [spoiler].

Durante il gioco il tema che emergeva era quello della disparità sociale su base economica. Noi siamo nella parte più bassa della classe sociale, facciamo un lavoro che ci dà appena i soldi per mangiare, male, spesso vomitiamo per il pessimo cibo. Molti dei prodotti venduti nel bazaar sono al di fuori delle nostre possibilità e alcuni beni di lussi elettronici sono incompatibili con il nostro sistema operativo. Di notte parti della città vengono chiuse ed è impossibile entrare al di sotto di un certo reddito. Da esclusi vediamo di tanto in tanto mezzi passare il varco, carichi di benestanti, femmine aliene e scorte armate.

Noi restiamo fuori e siamo interessati solo a spezzare l’incantesimo che ci ha colpiti, questo teschio urlante che ci perseguita e – da notare – l’incantesimo ci ha colpito perché per una volta, per provare ad uscire dalla routine del lavoro monotono che abbiamo, siamo scesi nei labirinti sotto la città, abbiamo voluto provare l’ebbrezza dell’avventura. Siamo stati puniti.

Alla fine del gioco riusciamo a liberarci del teschio. Torniamo a casa e ci buttiamo nel letto. Ma nel mezzo della notte il teschio ci sveglia. È ancora lì a mezz’aria e ci parla. È la prima volta che parla. Si scusa per averci tormentato, ma non era colpa sua, è così che funzionano i malefici, no? Però – aggiunge – il fatto di averci tormentato per così tanto tempo gli ha permesso di conoscerci e di vedere che stiamo vivendo male.

Che non stiamo vivendo, stiamo sopravvivendo. Che siamo inchiodati a un lavoro che non amiamo su un pianeta da cui vorremmo andarcene. Ma non siamo ancora condannati: tra poco il teschio assieme ad un altro personaggio del videogame salirà su una navicella e partirà, lascerà il pianeta. Il teschio ci invita a seguirlo. Possiamo scegliere: seguire il teschio o tornare a dormire.

Io ho scelto di seguire il teschio. Siamo usciti in una città irreale, vuota, l’abbiamo attraversata fino ad arrivare ad una nave spaziale ancorata sul belvedere e lì c’era il teschio che mi aspettava. Ho camminato verso di lui e poi l’ho superato. Camminavo nel vuoto, sopra la città, libero, e più camminavo più la città spariva e piano piano apparivano i crediti. Il gioco era finito. Avevo vinto.

Sono rimasto a guardare i crediti pensando al messaggio: è sempre possibile cambiare, si tratta di una nostra scelta personale. Poi è finito tutto. I crediti dei programmatori sono spariti, ma non sono tornato al menu di inizio. Il videogioco è andato avanti. Mi sono risvegliato nella mia stanza, senza teschio, sul pianeta con il mio solito lavoro di spazzino da cominciare. Ho guardato lo schermo senza capire poi lentamente è arrivato il vero messaggio: era stato un sogno. Non mi ero mosso dal mio letto. Il mio destino non era cambiato. Ero condannato.

Ho lanciato un gemito, basso. Ho chiuso il gioco. Sono uscito e ho ripensato alla cosa, ho provato a rientrare, a vedere se esisteva un ulteriore finale, se continuando a stare sul pianeta si poteva fuggire davvero, anche nel mondo reale. Ma è arrivata la delusione: dopo il sogno il videogioco non fa nessun salvataggio. Si ritorna al momento in cui siamo ancora tormentati dal teschio. Un bug o – più probabilmente – un ennesimo messaggio: non si sfugge al proprio destino.

02. giugno 2022 by fabrizio venerandi
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