Mi capitano in mano dei libri di poesia, usati, che sono arrivati in casa da spostamenti e perdite. Sono malandati, piccoli, sottili come la bresaola. Sono di autori conosciuti, appartengono a quel momento che oggi chiamiamo neoavanguardia e che è ormai considerato come perso. Ne sfoglio uno e – a più di cinquanta anni di distanza – mi sembrano conservare una modernità assoluta. Mi sono più contemporanei questi testi di altri che leggo prodotti oggi. Sono più moderni di cose che scrivo io oggi. Di quelle che scrivo e che poi butto, beninteso. Apro, ne trascrivo una:
tenendosi al coperto, e videro il duro di combattere. la sfera
“Fred” disse allora senza voltarsi. same violette guizzarono
“Fred” chiamò più forte. vibrò si aperse come un’arancia
l’uomo si volse, la raggiunse, e urvaricata, e nell’aria risuonò un
spinse con entrambe le bracchiato verso l’apertura come
sembrava essersi solipompa aspirante, cercò di resistere
era liscia e fredda come rezza, centimetro per centimetro
La poesia continua sullo stesso tema. Questo poeta poi ha fatto i soldi, le vendite dico, scrivendo romanzi di tutt’altro genere. Romanzi che non ho mai letto, non so perché. Non mi hanno mai attirato. È morto. Mi ricorda un testo di un altro poeta, vado a prenderlo. Apro a caso, ne leggo un frammento:
avevo l’acqua in bocca lo stomaco tutto botanico e misi il dito liquido nella zuccheriera
guardando l’abito smesso nero appeso in quel tempo fetale che mi annodarono le caviglie e
mi farà bene riflettevo stupefatto della grande produzione di pensieri essere quasi morto
ne presi uno per la collottola sgusciante e sputai le parole suppurate con polpa e nocciolo
Chiudo. Anche questo è morto. Probabilmente questa roba mi è entrata dentro quando ho iniziato a leggerla a fine degli anni novanta e per me questo è lo standard. Le cose che penso sono due, ma prima un frammento dai magici anni sessanta, americani questa volta, tradotti di recente.
“Se non credi in un dio, non invocarlo”, Valery una volta disse quando era lì lì per abbandonare la poesia. La suspension of disbelief intenzionale ha più o meno le stesse possibilità di una palla di neve all’inferno.
Lamie, forse, o succubi ma sono reali quasi quanto in California i lombrichi
Le cose che penso sono due, una l’ha detta mi pare Caserza, il fatto che questa scrittura fosse sostenibile, commercialmente sostenibile, è stato un grosso inganno. Siamo cresciuti, parlo di molti della mia generazione, pensando che questo tipo di scrittura, dirò meglio: questo tipo di pensiero potesse avere un mercato. Perché ce lo avevano fatto intendere, beninteso. Invece fare queste cose, pensare in questo modo, è una cosa di nicchia. Non dico di elite, non è un discorso di merito, proprio di nicchia. La nicchia di una nicchia. Oggi, nel 2025, mi viene da dire che è troppo tardi. Ormai io penso in questo modo, anche in questo modo. Fa parte del mio bagaglio estetico. Per me, scrivevo sopra, è lo standard.
La seconda è il libro di testo di italiano che usiamo nel biennio. Un libro con cui non mi trovo, ha enormi difetti, strutturali e contenutistici. Non dirò gli autori, dico solo che non mi stupisce che ci sia “il contributo di Massimo Recalcati”. Ad un certo punto, dopo alcune discutibli cose, il testo recita, cito quello che però in una poesia non può mancare è l’intensità dell’emozione descritta: l’occasione che la provoca può essere la più comune, ma l’esperienza e il sentimento che ne derivano devono essere della massima intensità
. Dopo aver letto queste parole ho chiuso il libro e l’ho buttato per terra, come se le mie mani volessero vomitare.
Ho saputo di un collega che – dopo aver letto in classe questa roba – ha detto ai suoi studenti che quella pagina, così come è scritta, potevano anche strapparla dal libro.
Purtroppo è stato preso in parola.