Coding per tutti

C’è questa scena di un film di Nanni Moretti in cui sta per nascere uno dei suoi figli e lui esce dalla sala parto urlando “epidurale per tutti, epidurale per tutti!”. In realtà la scena non è proprio così, ma nella mia testa è rimasta impressionata in questa maniera e – in genere – echeggia declinata al digitale con la parafrasi “programmazione per tutti, programmazione per tutti!”.

La frase risuona nella mia testa da qualche settimana perché lunedì 2 novembre inizia a Genova un corso di “Programmazione per tutti!” di cui sarò organizzatore e animatore. Il tema mi è molto caro e oggetto di frequenti discussioni.

ciaomondo

Perché fare un corso di programmazione per tutti? Perché pensare, nel 2015, che quelli che usano un computer debbano saper programmare?

Messa così la cosa può sembrare anacronistica e – se vogliamo – anche improbabile. Dobbiamo davvero tutti diventare programmatori? Risponderò punto per punto, in maniera – spero – disordinata e viscerale:

  • Dante Alighieri era un poeta. Non solo quello, ma era un buon poeta. Ha scritto alcune pagine in versi su cui si è poggiata l’intera letteratura italiana successiva. Ancora oggi c’è chi distingue tra poeti contemporanei “dantisti” e poeti contemporanei “petrarchisti”, per dire. Tutti noi, con buona pace di Odifreddi, lo abbiamo letto e lo studiamo a scuola. Il farlo ci permette di capire parecchie cose sulla storia medievale e sulla nascita della lingua italiana, per dirne due. Questo significa che siamo tutti poeti? No, non siamo tutti poeti, non è detto. Però ci è concesso di scrivere versi. Abbiamo la possibilità, avendo letto Dante e tanta altra gente che lo ha fatto prima di noi, di comporre poesie. Queste poesie, in primo luogo, servono a noi. Per capire meglio chi siamo, per comunicare cose che non possiamo dire in maniera diversa, per creare un habitat confortevole in cui muoverci. La stessa cosa, identica, vale per il coding. Non siamo tutti programmatori. Ma abbiamo ugualmente la possibilità di scrivere la parte di codice che ci è concessa, un codice che serve a noi, per esprimerci, per creare un habitat digitale confortevole. In fondo il listato altro non è che una serie di versi compilabili.
  • Sapere cosa è un computer, conoscere qualche linguaggio per chiedere di fare cose, è straniante. Per chi per anni ha usato un computer solo per usare applicazioni, pensare di scrivere versi e ottenere in cambio piccole applicazioni che non esistono, pensate e create da lui, è straniante. È come se dopo anni che vai in ufficio in tram, una mattina scopri che esiste una cosa che si chiama bicicletta. Che la guidi tu, che è leggera e che ti porta in posti dove in tram non ci saresti mai passato. Inizialmente è straniante. Poi.
  • Programmare non è facile. Anzi, è la summa di parecchie cose non certo facilissime. Bisogna cambiare prospettiva, tante volte, pensare cose umane in maniera logica, matematica, rigorosa. Ma poi.
  • Poi scopri che programmare è divertente. Divertente non rende l’idea, anche se ci si diverte. Programmare brucia. Ti siedi e lavori a un codice e quel codice fa cose che hai deciso tu, anzi in genere non le fa, è quello il divertente. Il codice non le fa e tu devi convincerlo che invece deve farle, scoprire come dirglielo, scoprire quanto sei stato stupido perché hai invertito un verso. Programmare significa trovarsi di fronte all’imprevisto. Grazie a te il computer fa cose sbagliate, dannatamente sbagliate. Satura l’hard disk, va in crash, scrive fuori schermo, distrugge dati. E quando guardi queste cose sbagliate, btw, ti vengono in mente un sacco di idee. E riprendi, con la febbre, per fargliene fare delle altre.
  • Programmare è difficile, ma esiste una zona di coding che è alla nostra portata. Abbastanza ampia. Ci si possono fare tante cose. È una specie di kindergarten per adulti che all’inizio si gioca, poi ad un certo punto ti rendi conto che le stesse cose le puoi fare per cose che ti servono, e magari sono capaci di farti risparmiare ore e ore di lavoro.
  • Non dobbiamo davvero sapere come funziona un computer, se lo usiamo per due o tre ore alla settimana. Così come non sappiamo come funziona un minipimer. Ma se stiamo tutti i giorni davanti a uno schermo di un computer, di uno smartphone, di un tablet, di un ebook-reader, se acquistiamo beni on-line, se scarichiamo mail, aggiorniamo stati, googliamo in rete, lavoriamo con programmi, inseriamo dati Excel, correggiamo testi Word, fotografiamo digitale, giochiamo videogames… beh allora sì, sapere chi è questo compagno della nostra vita quotidiana e lavorativa potrebbe essere una buona idea.
  • C’è un ritorno alla programmazione. C’è un esigenza sotterranea di ritornare al codice come strumento di lavoro, educativo. C’è un ritorno alla scrittura di proprie applicazioni, script, come elemento di emancipazione e di indipendenza. Guida la tua canoa, oggi Baden Powell direbbe Programma la tua applicazione. In un panorama in cui l’eseguibilità è legata ad uno store che vende App, la scelta di scrivere la piccola parte di codice che ci serve è un elemento che ha tinte rivoluzionarie. Scratch, Processing, Arduino, il BBC micro bit… sono tutti strumenti per tornare al core dell’informatica messo in ombra da anni ed anni di sistemi per usare il computer senza sapere come funziona. Era necessario: ma ora che il digital divide sta creando un’informatica a due velocità, è forse arrivato il momento di riprovare a usare il computer sapendo come funziona.

Noi iniziamo a Genova lunedì prossimo, spread the voice!

29. ottobre 2015 by fabrizio venerandi
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