Videogiochi, letteratura, ebook, libri, donne

Donne

Ho appena finito di giocare a Sunset, un videogioco di cui parlerò tra poco, che mi ha molto colpito. Ne venivo dal viaggio in Virginia, dopo aver finito lo splendido Life Is Strange. Poco prima avevo cominciato (e abbandonato) Tomb Raider 2013, subito dopo aver terminato Gone Home. Prima ancora mi ero perso nella bellezza di Gris e oltre c’era A Night in the Woods.
Quasi tutti giochi importanti, ricchi, evocativi.

E in tutti io sono una femmina.

E non si tratta solo di un aspetto folkloristico o sessista. Sono una femmina e parlo di questo mio essere femmina: mi ubriaco per non affrontare il mio ex-ragazzo, sono in un mondo distrutto dal dolore che devo ricostruire facendo armonia dentro di me, cerco le tracce dell’amore lesbico di mia sorella, mi innamoro di un maschio alfa che non ho mai visto, cerco faticosamente di tenere accesa un’amicizia con una ragazza tanto diversa da me.

Non sto solo leggendo la storia di una femmina, ma lo sono io, devo agire come una femmina, devo vincere il gioco con il mio essere femmina.

Mi sono interrogato sul perché ci siano così tanti videogiochi con personaggi femminili e non ho una risposta sicura. E mi sono anche chiesto se – in realtà – questi personaggi femminili siano più affascinanti per un giocatore maschio rispetto ad un giocatore femmina.

Sicuramente a me piace interpretare un personaggio femminile, mi piace gestire un corpo diverso dal mio da cui sono attratto. Nello stesso tempo alcuni di questi giochi toccano corde che sono dentro di me, che solo apparentemente sono femminili.

Mi chiedo anche quanti autori di videogiochi con protagonisti femminili siano in realtà maschi. Perché scegliere una ragazza come protagonista? Si tratta di un esigenza narrativa/artistica o di mercato? Ho provato a lanciare questa domanda su Facebook, ma è stato come lanciare un sasso nel vuoto.

Virginia

Virginia

Virginia è un videogioco molto particolare, non mi ha appassionato, ma ho trovato alcuni aspetti molto interessanti dal punto di vista del gameplay. Nel gioco interpretiamo una investigatrice alle prese con una scomparsa di un minore, ma in realtà stiamo segretamente indagando anche sulla collega che collabora con noi alle ricerche. In tutto il gioco non c’è dialogo, è sostanzialmente un gioco muto, e il controllo che abbiamo sul personaggio è minimo: le cesure narrative che troviamo abitualmente in un telefilm, qua le abbiamo in un videogioco. Questo significa che stiamo camminando in un corridoio e ci troviamo improvvisamente nel garage. Cesura. I tempi del videogioco non sono quindi quelli scelti dal giocatore, ma quelli dell’intreccio impostato su una visione sostanzialmente cinematografica. Le scelte che la protagonista può fare sono poca cosa. Più che un videogioco in prima persone sembra più un telefilm in cui siamo dentro il protagonista e vediamo quello che comunque avrebbe fatto. Lo stile surreale, un po’ alla Twin Peaks, fa sì che per buona parte del gioco non si capisca niente, il che – paradossalmente funziona.

Sunset

sunset

Completamente diverso il caso di Sunset, videogame uscito nel 2015 di cui avevo letto quest’anno nella rivista Progetto Grafico.

Inizio a giocare e l’unica cosa che posso fare è pulire la casa di un ricco critico d’arte, in un paese in preda alla rivoluzione, mentre mio fratello mette bombe per la città, contro lo stesso critico, asservito al regime.

Nel mezzo mi siedo e ragiono sull’arte, sulla politica. Rubo informazioni, giro per l’appartamento, ne vedo i cambiamenti nel corso dei mesi.

Leggi i biglietti che il datore di lavoro mi lascia, scrivo i miei. Non ci siamo mai incontrati. Mentre lavoro metto su degli LP di musica sudamericana, jazz. Osservo l’architettura d’interno anni settanta, terribile.

Penso. Vedo i giorni che passano, i santi del calendario cattolico, le assunzioni in cielo. Nove ore di gioco in una ambientazione tra il 1972 e il 1973 per entrare nel videogioco che, per Tales of Tales, doveva essere il gioco per i giocatori e che invece si è rivelato un insuccesso commerciale tale da indurre i due programmatori a fare dell’altro (ambienti artistici in VR, se ho capito bene).

Dal punto di vista del gameplay Sunset è un “gioco” sbagliato. Per tantissimi motivi. Come ci si può appassionare ad un gioco nel quale interpretiamo una ragazza nera che ha lasciato gli Stati Uniti e ora fa la donna delle pulizie dalle cinque alle sei di sera, una volta alla settimana? E il gioco è – apparentemente – questo, fare le pulizie.

E anche dal punto della progettazione 3D Sunset non convince: i bellissimi colori, la grafica funzionale fanno a pugni con una programmazione che rende gli spostamenti faticosi e il rendering decisamente troppo lento.

Il fatto è che Sunset è piuttosto un’opera di letteratura elettronica, sotto il vestito del videogame. Un’opera di letteratura elettronica che ha anche ambizioni dal punto di vista grafico/artistico. Un’opera tutt’altro che banale, che vive attraverso simboli, riti, luoghi, lettura, suoni (tantissimi suoni) e musica. Un’opera talmente coinvolgente, se si ha voglia di essere coinvolti, e io l’ho avuta, dicevo, tanto coinvolgente che ad un certo punto ho iniziato a cercare su Amazon i libri della biblioteca del protagonista per comperarne uno.

Per poi scoprire che era inesistente, faceva parte di questa America latina alternativa, inventata ma assolutamente credibile.

Quando la rivolta arriva in città, prendono fuoco i palazzi, e la settimana dopo arrivano gli aerei degli Stati Uniti per dare manforte al regime, beh, è un romanzo, è fiction. È politica.

Alla fine il videogioco termina, scorrono i titoli di coda, le decine e decine di persone che hanno lavorato per il progetto e poi, inaspettatamente (un bug?) è ancora possibile restare nel gioco. Rimanere dentro, girare in tutte le stanze dell’appartamento, vederle per l’ultima volta.

E il finale, spoiler, devo dire che sono due o tre giorni che mi è rimasto dentro. Gioca tutto su un simbolo, su un colore, mi aspettavo una fine narrativa e invece tutto è dentro un luogo, un tempo, un colore – verde – che abbaglia e fa risuonare l’appartamento che per tutto le precedenti nove ore avevo visto solo nel rosso fuoco del tramonto. Alla fine, Sunset è una delle cose migliori che abbia incontrato ultimamente.

Paper Pong

pong

Ma non dimentichiamo il potere evocativo del libro, del libro di carta. Per questo ho finalmente comprato, per me e per primogenito Paper Pong, un testo essenziale per chi si occupi di letteratura e videogiochi. L’autore, Richard Moore (già autore di pac-txt), definisce il suo libro l’”anello mancante tra Turing e il Pong”.

Il libro si legge in orizzontale, come la fortunata collana Flipbook di Mondadori.

Si inizia dalla pagina 1 e siamo subito lanciati in una avvincente partita a Pong, lo storico arcade del 1972.

Il giocatore destro è mosso dal libro, mentre noi possiamo muovere il giocatore sinistro. Invece del joystick, arnese poco consono a chi maneggia libri, possiamo usare i due numeri di pagina che appaiono sopra e sotto al nostro pad.

Come in un librogame la partita continuerà spostando il nostro pad per intercettare e rilanciare la pallina contro i nostri avversari.

Ore e ore di divertimento assicurato.C’è anche l’odore della carta

Nethack on ebook (reader)

nethack

Infine: ho installato lo storico videogioco Nethack sul mio ebook reader. Ecco, girare per labirinti sotterranei, leggersi la storia del videogioco, raccogliere oro e armature, mi è sembrata una cosa così omogenea a leggere con lo stesso dispositivo ebook di narrativa.
Il mio romanzo da spiaggia 2019 sarà Nethack, buone letture anche a voi.

22. giugno 2019 by fabrizio venerandi
Categories: digitale & analogico, Interactive Fiction, videogame | Leave a comment

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