Tutti i videogiochi della mia vita (I puntata)

Moon Cresta #1

Il primo cabinato a cui abbia mai giocato nella mia vita si chiamava Moon Cresta. Nel video lo vedete a colori, ma io lo ricordo in bianco e nero con degli adesivi semitrasparenti colorati messi sopra, forse una versione economica che usava un monitor in bianco e nero.
Era nell’angolo a destra entrando nella zona ragazzi del circolo ACLI di Sant’Olcese, accento al jukebox e il flipper.

Pur essendo un classico ‘navicella spaziale contro alieni che scendono’ aveva alcune caratteristiche di gameplay uniche: l’astronave in realtà era composta di tre parti diverse che – in alcune parti del gioco – potevano essere faticosamente combinate aumentando la potenza di tiro.
Ma la manovra, se fatta malamente, poteva portare alla perdita di una parte della navicella.
Ma quello che ancora adesso mi affascina sono i suoni, questi 8-bit sparatissimi, e le estetiche vettoriali: i movimenti degli alieni di primo livello o il rapidissimo comporsi degli alieni a 1:20.
La cosa che dovete immaginare, e capisco che sia difficile, è che prima di questo 1980, non c’era nulla del genere. Non esistevano suoni e colori del genere, erano fuori da ogni schema. Fuori dal circolo ACLI suonavano le campane del campanile cittadino, goffe canzoni di chiesa che echeggiavano per le valli pascoliane, e intanto dal cabinato arrivavano questi suoni incredibili, colori fuori gamma, forme bitmap che si formavano sotto i nostri occhi e creavano una nuova estetica che ora, dopo quarant’anni, è diventata comune. Ma in quel momento era la massima avanguardia grafica che potessimo avere sotto agli occhi.
Come avrebbe detto Petrarca, “qual meraviglia se di sùbito arsi?”

Sprint #2

Ho sempre odiato Sprint, eppure era immancabile in ogni sala giochi ed era immancabile una partita contro qualcun altro: era uno dei pochissimi giochi che, in una delle sue versioni, permettesse a più esseri umani di sfidarsi.
Prima di internet giocavamo in rete, dal vivo.
Aveva il volante, aveva le marce, aveva un pedale, ed era oggettivamente perfetto. Era “diverso” da tutti gli altri arcade da bar e non sfigurava la sua grafica bianco e nero assolutamente essenziale.
Era un figlio di “pong” più che di Space Invaders, non aveva nessun plot e nessun goal che non fosse la sopravvivenza continua, la vittoria sugli antagonisti.
Lo detestavo, era una tipologia di gioco che non aveva niente a che fare con me, eppure ci giocavo, per sfida, per provare anche quella modalità di gaming.
E ancora oggi a rivedere le curve, i circuiti che cambiano nel tempo, il suono del motore, le macchie nere OIL, provo una strana sensazione: ritornano frammenti di quel tempo, il jukebox acceso, il sapore dell’aranciata amara, il sole.
Quell’estetica ha lasciato un segno sottile da cui ancora oggi escono liquidi digitali.

Centipede #3

Di Centipede parlo nel mio libro PÈCMÉN, quindi sarò più breve del solito tanto lo avete tutti già letto.
Ricordo che quando arrivò a Sant’Olcese rimasi affascinato, più che del gameplay (che era comunque dignitoso dovendo il giocatore giostrarsi tra la distruzione dell’insetto e il suo trasformarsi in funghi quando colpito), quanto dall’accostamento dei colori nei diversi livelli.
Cobalto – rosso; giallo – verde fosforescente; viola – azzurro; blu – arancione; rosso – verde brillante. Erano tinte innaturali che venivano accostate contro ogni grazie grafica.
C’era un celato esibizionismo pop o un tragico daltonismo del programmatore che – però – funzionava. Superavo i livelli uno dopo l’altro solo per incontrare le nuove tinte.
La storia si portava invece dietro molte domande irrisolte: perché ero la testa di una specie di ramarro? dove era il resto del corpo? perché non mi mangiavo il centipede ma gli sparavo con la bocca? perché il centipede si trasformava in funghi?
Probabilmente erano i funghi la chiave: sia dei colori psichedelici che dell’ambientazione allucinogena. Beata California.

Asteroid #4

Quando ho iniziato ad andare alle medie sono uscito dal soffice nido delle elementari per finire a una decina di chilometri di distanza in un ambiente freddo in cemento armato chiaramente ostile.
Tra il mio arrivo alla scuola e l’inizio delle lezioni passava un’ora buona, per una incidentale turnazione del bus/scuolabus e – nel mio ricordo – in quell’ora poteva succedere di tutto: scazzottate, inseguimenti feroci, scambio di figurine di Candy Candy, analisi delle riviste di programmazione uscite in edicola, imbarazzantissimi tentativi di flirt, lettura del giornale Il Lavoro, ma soprattutto, i videogiochi.
Era freddo, buio, ma due piccole luci brillavano nella notte: una era all’interno della Croce d’Oro, riservata ai volontari delle ambulanze, ma ne parlerò poi. La seconda era all’interno di un bar non-da-ragazzini che alle sette del mattina era stranamente aperto e vuoto e dove — in un angolo — il barista, per motivi sconosciuti probabilmente a lui stesso, aveva messo un cabinato di Asteroid.
Asteroid era vettoriale, o ci provava, e quei vettori erano qualcosa di nuovo. Non c’era storia, anche qua un universo piuttosto improbabile, ma il gameplay – che oggi farebbe sorridere – era perfetto per quei primi timidi anni ottanta.
C’era una navicella che si muoveva per inerzia, c’erano asteroidi che si spezzavano in pezzi più piccoli, c’erano vettori di movimento, c’erano velocità diverse, c’era un UFO che ogni tanto passava e sparava e nessuno sa bene perché, c’era l’iperspazio.
Era abbastanza per entrare nel bar alle sette del mattino, scambiare le mille lire – che sarebbero dovute servire per comprare la merenda – con monete da cento lire, e passare il tempo fino alle otto meno due o tre minuti in questo universo parallelo a distruggere asteroidi, accendere i motori, ruotare, sparire nel buio.
Fuori dal bar lentamente la luce cambiava, la notte lasciava spazio alle prime luci dell’alba, gli studenti lentamente portavano i loro zaini verso la scuola media, ma io ero dentro quella eterna notte elettrica a vedere quello spettacolo di bagliori digitali.
E Asteroid è ancora qua dentro, da qualche parte, che frantuma gli enormi massi che ancora mi rovinano contro.

Defender #5

Defender a me faceva paura. Era un gioco difficile come la morte, con dei suoni 8-bit meravigliosi. Era pura adrenalina. Tutto ti era ostile, gli alieni, tanti, erano davvero alieni, scendevano, prendevano i terrestri, li inglobavano e diventavano esseri mutanti, contro di te.
Mentre cercavi di salvare i terrestri rapiti dagli alieni, li uccidevi per errore. Il fuoco amico era continuo. E poi, dopo che tutti gli umani erano uccisi, il mondo squadernava, letteralmente. Via i profili vettoriali dei monti, tutto andava in pezzi e ti trovavi solo nel vuoto, circondato da alieni, così tanti, così risoluti che sembravano insetti.
C’era l’iperspazio, come in asteroid, e avevi anche alcune bombe che distruggevano tutto quello che avevi attorno. Non erano da usare per disperazione, ma un ennesimo tassello del gaming: tattiche per farsi inseguire, raccogliere il maggior numero di nemici possibile, arrivare nel momento di massima crisi e premere il pulsante. Tutte le difficoltà vanno in pezzi.
Il lavoro sulle icone, piccolissime, sui colori, sui suoni. Ogni nemico aveva caratteristiche grafiche ma anche sonore. Ancora adesso, mentre scrivo, c’è il video del longplay che sta andando senza che io lo veda, e sembra un concerto di musica elettronica. E alla fine, quando si scrive il nome per il record, un balzo indietro nel tempo: un riarrangiamento 8-bit della toccata e fuga in re minore di Bach.
Non uno dei miei giochi preferiti, ma uno di quei giochi che devi riconoscere il lavoro che c’è dietro, la longevità, la calibrazione al millimetro di giocabilità/difficoltà.

Wilderness #6

In realtà ho giocato pochissimo a questo videogioco, anche perché aveva un parser completamente diverso da quello delle normali avventure testuali, mi sarebbe stato utile il manuale per capirne il funzionamento e io avevo solo una copia piratatissima. Però il solo averci “girato” un po’ mi diede l’idea di cosa si potesse fare con una cosa del genere.
Avete presente i “survival game”, questi giochi in cui ti trovi in ambiente ostile e devi cercare di sopravvivere usando un gameplay votato alla simulazione più realistica possibile, spesso in 3D?
Beh, questo semisconosciuto (oggi) Wilderness è uno dei padri del genere ed è stato ideato e programmato più di trent’anni fa. Siamo caduti con il nostro aereo nel mezzo del Sierra Nevada e – buona fortuna.
Tutto quello che oggi si fa con joypad o tastiere, in Wilderness viene fatto con frasi verbo + oggetto. Ma – attenzione – non è una avventura grafico/testuale. Le immagini non sono disegnate, ma *calcolate* per permettere al giocatore di muoversi nello spazio. Il parser è completamente diverso: LOOK SUN non ci dà una descrizione del sole, ma mette al centro dell’immagine il sole, in modo da avere un punto di riferimento per poterci muovere.
Così LOOK RIGHT o LEFT ci fanno ruotare, così come i vari PAN ci permettono di muoverci nello spazio. Si cammina per ore, si raccolgono insetti, piante.
Perché un gioco a cui ho giocato poche ore ancora oggi è scolpito nella mia memoria? Perché, nel 1986, mi aveva aperto un sacco di idee e di possibilità. C’era un diverso modo di rappresentare un mondo, graficamente e narrativamente, e – a cascata – di relazioni che il lettore/giocatore può avere con questo mondo.
Ecco, questo è un gioco che oggi, trovando magari nei meandri di internet il manuale, potrei riprendere per terminare le sessioni di gioco iniziate trentacinque anni fa.

Pac-Man #7

“Io sapevo che Pac-Man era il videogioco cardine di quell’anno, che ogni altro videogioco che ci poteva essere stato prima era solo una preparazione, che anche Moon Cresta che era uno shoot-arcade da brivido non era niente se confrontato con Pac-Man, che Pac-Man era più di un videogioco, era qualcosa che non assomigliava a niente di vecchio, era un fenomeno di massa, c’erano le t-shirt di Pac-Man, c’erano le canzoni pop che parlavano del Pac-Man, Pac-Man era l’America e il Giappone uniti che arrivavano a Sant’Olcese portandosi dietro un mondo di campus, di programmazione, di cartucce di espansioni ROM dal nome esotico cartridge, di odore di silicio leggermente tostato, di codici esadecimali, di suoni e rumori sintetizzati che avrebbero cambiato per sempre la mia vita, non in meglio né in peggio, ma – dico – si poteva stare ancora a guardare la luna di sera, quando la luna nel labirinto apriva e chiudeva la sua bocca insaziabile?”
[da PÈCMÉN, Blonk editore 2020]

Pooyan #8

Le secondarie inferiori per me sono state il viaggio di uscita da quel mondo protetto che era Sant’Olcese Chiesa, pieno di orrori adolescenziali, ma circoscritti, per entrare nella metropoli che — in questo caso — era una frazione di Sant’Olcese chiamata Manesseno ma che già puzzava di Bolzaneto e Bolzaneto era già Genova, ma non Genova centro, era la periferia più estrema.
Bolzaneto all’epoca, nel narrato popolare dei ragazzini, era associata al fantomatico giro del vento, alla droga, a gente che veniva e ti spaccava la faccia. Era anche il luogo dove qualche anno dopo — per la prima volta nella mia vita — mi sarei comprato da solo, autonomamente, le prime musicassette di musica pop: Socialismo e Barbarie dei CCCP e Sold di Boy George.
Di segno zodiacale sono gemelli.
Manesseno non era ancora Bolzaneto, ma ci somigliava: cemento armato, strade percorse dai camion che cercavano l’ingresso dell’autostrada, piccole aziende, fabbrichette, malessere, posti brutti.
In tutto questo, l’ho già scritto, io finivo quasi un’ora prima del suono della campanella, per via della turnazione degli scuolabus e — arriviamo a Pooyan — cercavo gli schermi dei videgogame come le lucciole le lampade che frizzano.
Pooyan era nascosto all’interno della Croce d’Oro, dove i volontari che turnavano alle ambulanze potevano, per distrarsi, rilassarsi e giocare a Pooyan. La Croce d’Oro era chiusa agli estranei e non ricordo assolutamente come ero riuscito a scoprire il cabinato e a fare in modo che i volontari accettassero che un ragazzetto pallido e sorridente come il sottoscritto potesse entrare dentro la loro sede per lunghissime partite a Pooyan.
Pooyan sei una mamma maiala che deve difendere i figli da lupi che li vogliono divorare. I lupi, come spesso accade in natura, si lanciano dai rami, appesi a palloncini colorati. E tu, mamma maiala, devi difenderti nello stesso modo in cui lo faresti nel mondo naturale: appesa a una carrucola tirata dai tuoi figli, lanci frecce cercando di bucare i palloncini dei lupi.
Talvolta al posto delle frecce puoi lanciare un cosciotto arrosto che — si sa — è molto più efficace per fare cadere lupi appesi ai palloncini.
Poi uno dice perché la droga a Bolzaneto.
Eppure Pooyan è difficile da dimenticare — per me — perché ero lì, ero lì negli anni ottanta, alle sette e mezzo del mattino, all’interno della croce d’oro di Manesseno, con gli occhi spiritati a vedere come funzionava questa cosa, a perfezionare le mie skill.
È un videogioco secondario come molti a cui ho giocato nella mia vita, ma — come dire — è un videogioco della mia vita. Ha lasciato un residuo, per quando infinitesimale, ha anche lui concorso alla mia idea di videogioco, come quando certe piccole pozze d’acqua evaporano per la loro piccolezza rispetto alla grandiosità del sole e del tempo, ma lasciano comunque una traccia, un alone di quello che sono state.

[continua...]

28. febbraio 2021 by fabrizio venerandi
Categories: digitale & analogico, videogame | Leave a comment

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