[un lungo, inutile, post su Baricco e il futuro dell’umanità]

Il post di Baricco, che poi alla fine ho letto perché mi piace parlar male delle persone con un minimo di cognizione di causa, ha alcune cose interessanti, anche a livello formale, e tante altre che mi paiono a corto respiro e discutibili.

La cosa più interessante e di qualche valore, è che il pezzo di Baricco è un pezzo che va a giocare sull’emozionale, che guarda in avanti, utopico e che è – alla fine – capace in poche righe di settare una visione del mondo futuro, di quello passato e spingere a scegliere la parte migliore, più innovativa. È una chiamata a prendere posizione e questa posizione è una posizione positiva, fiduciosa. Il pezzo di Baricco apre alla speranza di un mondo migliore che si lasci indietro un sacco di relitti del novecento che ancora incrostano la nostra contemporaneità. È tutto molto chiaro.

Il problema e forse il limite del pezzo di Baricco è proprio in questa chiarezza. Baricco tende a semplificare e questa semplificazione alla fine crolla sotto l’accumulo della complessità delle cose di cui Baricco sta parlando. E – metto le mani avanti – non sono io la persona migliore per fare crollare tutto l’impianto, perché io sono fondamentalmente una persona semplice, più semplice pure di Baricco. Ma le cose che ho visto in questa parte di vita che ho vissuto tendono a rendere infantile la visione baricca della vita, e se non funziona con me che sono un ingenuo, figurati con chi ha un minimo di malizia più di me.

La prima cosa è che non vedo l’agonia della politica nazionalista che dall’ottocento ci stiamo portando dietro e soprattutto non la vedo morire in quel settore che Baricco identifica come nuovo e portatore di cambiamenti. Non la vedo morire, voglio dire, tra i giovani e non la vedo morire nel mondo della rete e del digitale.

Guardando agli studenti che ho avuto negli ultimi anni, guardando i giovani padri che ho conosciuto per le tante cose della vita, guardando alle generazioni successive alla mia, io continuo a vedere emergere piccoli fascismi, omofobie, trumpismi, difesa del territorio e paura del diverso. Girando in rete trovo le isole felici, sofferenti ma felici, di chi è fuori da queste dinamiche, ma trovo ancora zoccoli durissimi che si rifanno al più becero nazionalismo o regionalismo peloso.

Lo stesso strumento che permette a individui isolati territorialmente di trovare altre persone con la stessa sensibilità verso il futuro, lega in rete miti, disordine informativo, tossicità e rigurgiti distruttivi di altri gruppi. Il digitale ha cambiato le nostre vite, ma il digitale non è un valore, è uno strumento. Può essere usato per le cose peggiori.

A questo si aggiunge la mia particolare visione in prospettiva: Baricco sembra essere stato felicemente accecato sulla via di Damasco dal digitale in tempi relativamente vicini a noi. Io ho comprato il mio primo home computer nel 1983, sono entrato in rete cinque, sei anni dopo. Ho visto il digitale e la telematica nascere, ho contribuito in qualche modo a questa nascita, per quanto marginalmente. Facevo scrittura collettiva negli anni ottanta, ero su Fidonet negli anni novanta, su usenet quando ancora i social non erano nati. Quando facevo le mappe del videogame multiplayer online che sarei andato a creare di lì a poco con Uber, ecco, Zuckerberg aveva quattro anni.

Avendo percorso il digitale e la sua innovazione fin dal novecento, perché il digitale nasce nel novecento, ecco posso dire che il suo cammino dirompente è andato pari passo con forti tossicità, da sempre e che oggi l’uso del digitale online, quello che un tempo banalmente chiamavamo telematica, ecco, non sta certo vivendo il migliore dei possibili mondi. Al nazionalismo dei secoli precedenti si è affiancato un transnazionalismo imprenditoriale che ha addentato la telematica, l’ha aperta alle masse – spolpandola – l’ha omogenizzata e ora la tiene – scusate la metafora maschilista – per le palle.

Nei mondi virtuali abitati dalle nuove generazioni convive l’impegno sociale e la pressione competitiva, la speranza per il futuro e un cyberbullismo. Provate a giocare a qualche gioco in rete, a leggere cosa ci si scrive nelle chat mentre si combatte, quando un ragazzino o una ragazzina fa perdere il suo team. Date una occhiata a quale è il clima di lavoro all’interno delle software house che producono intrattenimento online.

La mia critica successiva è più confusa e me ne scuso. La visione di Baricco è – dicevo – utopica ed emozionale ma anche intimamente illuminista. Ora, la visione illuminista, il cardine per certi aspetti della visione occidentale del mondo, deve prendere atto che lo sciame disordinato che si muove per il mondo, virtuale o meno che sia, non lo è. Lo sciame si muove per emozioni, sia quando queste siano positive (e il pezzo di Baricco si apre proprio su questo aspetto) sia quando queste siano stupidamente, scioccamente, intimamente distruttive. Per nessuna ragione. La rete, il digitale, l’opinione pubblica, sono intrise di questo propellente che resta lì latente in attesa di una piccola o grossa fiammata. E – di nuovo – i giovani, i vecchi, i boomer, sono tutti intrisi della stessa sostanza. La nostra dieta culturale ha bisogno di tanto in tanto di rovina. Di autodistruzione.

Prendi internet: abbiamo di fronte una rete immensa, piena di oggetti culturali, come mai è stata. Eppure se io analizzassi la mia, la vostra cronologia di navigazione, vedremmo come la nostra fame è molto più animale, che tutta questa infinita cultura la sfioriamo appena, ne addentiamo di tanto in tanto un impalpabile frammento. Il più delle volte siamo attirati dall’osceno, dalla barbarie, da emozioni primarie come l’indignazione e la lapidazione. “Non io” diranno molti di voi, eppure.

L’ultima cosa è che Baricco ci vorrebbe tutti oltre il novecento, ma ancora saldamente europei. Si confonde appena inizia a parlare di America, perché lì il digitale mostra in maniera più evidente molte delle cose che ho scritto qua sopra. Non nomina – mi pare – quasi mai la Cina o l’India. Eppure sarebbe proprio lì una delle novità reali del digitale, che Baricco peraltro riconosce nella prima parte del suo articolo e che io raccontavo nel mio romanzo ambientato negli anni ottanta. Il fatto voglio dire, di essere nati in un territorio e di aver avuto la possibilità di non restarne ancorati. Anche senza muoversi di un millimetro. Di poter vedere, ascoltare e intergire con ambienti lontanissimi dalla provincia italiana o da quella europea.

Qui volevo scrivere qualcosa su un termine “cosmopolita” che oggi fa ridere, eppure è il segno di una scelta, quella di recidere una identità territoriale per abbracciare qualcosa di più ampio. Oggi le nuove generazioni, anche quelle iperconnesse, hanno una identità transnazionale “di default” infinitamente più ricca e articolata rispetto ad un tempo, una identità che talvolta spaventa una parte di loro e li ri-orienta verso valori più semplici. Più chiari. Spaventosi a volte, ma più maneggiabili e accettabili in ambito familiare o sociale. C’è – anche nel mondo calcistico e del tifo – questo richiamo ai ‘valori di una volta’. A un “certo tipo di mentalità” di una volta.

E in questo sono d’accordo con Baricco che riprende un concetto che aveva scritto Orecchio qualche tempo fa. L’idea che ci sia una parte della popolazione che con quella “vecchia mentalità” vuole farla finita. Che con l’oscenità della guerra, dei meccanismi di disegualianza, delle disparità sociali, c’è chi non vuole avere più a che fare, perché – sostanzialmente – vuole vivere felice. Anche perdendoci qualcosa. Sad but true. E per farlo bisogna prima di tutto cambiare il proprio vocabolario, eliminare i lemmi che il novecento ha creato e che gli intellettuali e il giornalismo italiano stanno riproponendo per riprodurre un mondo già vissuto e le sconfitte che lo hanno attraversato.

Cambiare il vocabolario, il proprio immaginario di quello che significa essere umani. Le proprie idee e le proprie sicurezze. Questo è già più complicato.

Perché molto di quel mondo libero, innovativo, digitale, su cui appoggiamo la nostra immaginazione, è parte del problema. La struttura su cui si poggia la nostra felicità è simile alle fondamenta di una città che sta lentamente collassando, e che potrebbe continuare a collassare dolcemente in eterno.

Ma l’eterno, diversamente da come comunemente si crede, a un certo punto non dura più. Termina con frastuoni o silenzi profondissimi.

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